Recensioni

Ce lo ricordiamo bene, una decina di anni fa scarsi, il primo ascolto di questa formazione di cui si ignoravano, come nella migliore delle tradizioni underground, non solo i componenti ma anche la provenienza e le dinamiche tutte. Ce lo ricordiamo ancora, come una botta in faccia tanto inattesa quanto “rinfrescante”; quella sensazione che più si va avanti nel mondo della musica e meno si prova, assuefacendosi a una specie di aurea mediocritas che pian piano lascia spazio alla noia.
E invece loro due sembravano proprio avere delle cose da dire e anche sapere come dirle nella maniera più diretta; nel frattempo si cominciava a indagare, noi (di qua dal palco/stereo/tastiera), e a dar notizia di sé, loro (dietro il pc, sul palco, dentro il disco); e pian piano si scopriva qualcosa di più, che oltre lo scarno minimalismo riottoso e aggro-punk c’era della ciccia, ovvero una marea montante di roba che esulava ed esondava dalla mera questione musicale per divenire altro: working class, rivendicazioni, impegno, proletariato erano suoni e parole e ideali che tornavano al centro di un palcoscenico sempre più egotico e autoreferenziale qual è (o quale pare essere) quello di questo scorcio di terzo millennio.
Oggi i due sono una piccola grande istituzione e hanno una carriera discografica di tutto rispetto che deve per forza di cose rinnovare non i temi e l’approccio (vedi alla voce Short Cummings “dedicata” al Dominic braccio destro di Boris Johnston: giro irrisolto di basso e invettive contro la dissociazione tra autorità e realtà circostante), quelli rimangono duri e puri, ma il suono, levigando e arrotondando le asperità della sempre povera strumentazione. Ecco così che l’approccio curioso notato a tratti nel precedente Eton Alive (All That Glue era una raccolta), album che dopotutto è entrato nella Top 10 inglese, sfocia in collaborazioni (Amy Taylor nell’ossessiva cantilena Nudge It, Billy Nomates, l’attivista Lisa McKenzie) e chitarre e una elettronica meno “aspra” e più duttile, così come in un “flow” (volutamente tra virgolette) più – ehm – cantato e addirittura meno “cockney” (no, dai non immaginatevi troppo eh).
Mork N Mindy è l’emblema di questo “nuovo corso”. Un pezzo che è così groovey & creepy che potrebbe realisticamente essere una hit da discoteca off per zombie alieni su un satellite terraformato nel 2087 ed è pure la prima collaborazione in assoluto per i due: protagonista un’altra riottosa e giovanissima qual è Billy Nomates che, parole di Williamson, l’ha realisticamente “trasformata” in quell’ipnosi a occhi aperti e pupille dilatate che è. Nello stesso modo agiscono quella specie di trip-hop autistico che è Out There, il glitchetto che tiene sottotraccia tutta Top Room o le amare parole sulle discriminazioni sociali affidate alla wave spastica della title track.
Insomma, è un po’ come vestirsi a nuovo o almeno provarci alla propria maniera, l’unica possibile, ma rimanendo sempre gli stessi, provocatori, riottosi, incazzati osservatori (tra i più lucidi) della realtà circostante vantando un “pedigree” che è fatto di integrità e rispetto guadagnato sul campo. Ovvero, chi tirerebbe su decine di migliaia di spettatori per un live in streaming sotto pandemia senza la credibilità che hanno gli Sleaford Mods?