Album
Ok: siamo tutti innamorati di un certo sound chitarristico targato anni ’90, quello che ha avuto nei My Bloody Valentine di Loveless un picco difficilmente avvicinabile. Ma anche di quello dei Dinosaur Jr. o dei Ride. Ecco, anche i quattro Cheatahs sono chiaramente innamorati di quell’epoca musicale, di quell’estetica e di quel sound: lo-fi buzz, voce annegata nel muro delle elettriche, in bilico tra alt-rock e noise. Roba che se è fatta bene – gli Smashing Pumpkins di Mellon Collie… per esempio – ancora oggi mostra un fascino a cui è difficile resistere. Però questo ritorno degli anni ’90 ha anche messo in gioco un back to 90s (gli stessi MBV , i Seefeel o, in casa nostra, i Massimo Volume) che è stato disuguale per qualità e risultati. Ma almeno quelli erano figli legittimi di quell’era.
Nel 2014, esaltarsi per un gruppetto onestissimo, capace, che mescola abilmente le carte di un rock comunque intelligentemente vestito come questi Cheatahs, possiamo dire che tecnicamente è fuori luogo, se ti occupi di musica da giornalista musicale e non da fan. Per fare un esempio che piacerebbe alla nostra Giulia Cavaliere, sarebbe come dare lo stesso peso dell’originale (Paolo Conte) a un emulo (Raphael Gualazzi). Non per forza i brani di Nathan Hewitt, James Wignall, Marc Raue e Dean Reid suonano male, tutt’altro, ma crediamo sia giusto avvisare il lettore che rifanno Bodies e Stumbleine appena meno hard, ma senza variazioni sostanziali. Che anno è?