Album
Rap cantautorale è un tag che personalmente ho sempre un po’ schifato, ma oggi sembra quasi inevitabile doverlo spendere per distinguere la nuova scuola (parliamo di trap e dintorni) da tutto il resto; perché ci sono i Mecna e i Dutch Nazari, i Coez e i Dargen D’Amico, ma anche i Moder e i Murubutu del caso. Nomi che tra loro hanno poco o nulla in comune, salvo un approccio che nettamente si discosta dalla – e molto raramente dialoga (Il Ritorno delle Stelle di Dargen con Tedua, Izi e Rkomi, e forse nient’altro) con – la cosiddetta “nuova scuola”, che si parli di Milano, Roma o Genova.
Tra loro infiliamo anche Willie Peyote, che, dopo il buonissimo Educazione Sabauda, prova a bissare con questo Sindrome di Toret. Il doppio significato del titolo gioca sull’assonanza tra la sindrome neurologica di Tourette e la fontana torinese a forma di toro – toret appunto – dalla cui bocca l’acqua zampilla incessantemente. Il tema portante – si può anche arrivare a chiamarlo concept – è infatti la libertà di espressione con tutto il suo bagaglio di paradossi, nell’oggi dei millenials e della piaga dei 50enni sul web, dei troll e dei flame, dei tuttologi e dei populismi, dei leoni da tastiera e della compulsiva bulimia sovraesposta da social. Il pericolo, spesso sfiorato, è di scivolare in un qualunquismo spicciolo rispetto ai complessi fenomeni che vuole motteggiare. Willie lo sa ed esplicita anche il rischio, e tutto sommato il giochino tende a funzionare. La scrittura strappa diversi sorrisi e riesce a regalare qualche sintetico accostamento anche molto ficcante, si tratti di pungenti sarcasmi sugli webeti aspiranti Alberto Angela o di semplici immagini («Continuo a svuotare bicchieri come se loro riempissero me»). Si sbeffeggiano il bigottismo e la xenofobia, i buongiornissimo (!) e l’indignazione d’accatto spesa, magari flippando un like mentre si è seduti sulla tazza del cesso, il veganesimo e l’anti-vax, la cultura dei meme e l’analfabetismo funzionale. Sono tutte cose anche abbastanza facili da deridere e intuitive da smontare, ma poi bisogna anche saperlo fare bene.
Musicalmente il bilancio è ambivalente: l’approccio suonato e il background punkettoso di Willie restituiscono una palette di basi davvero ampia: spaziamo tra qualche elegante piano da cocktail infarfallato (Ottima Scusa), patinata e paillettosa house funk da post-RAM liofilizzato (Metti che Domani), il bignamino tributario ai Talking Heads (Le Chiavi in Borsa) e si osa perfino qualche divagazione strumentale vagamente prog e jazzata in coda (Giusto la Metà di Me). Ma ci sono anche blues belli muscolari a base di armoniche e groove serrati che poi si aprono a ritornelli belli pop (Portapalazzo), e pettinata dance rockista (Donna Bisestile, prodotta da Jolly Mare, e Vilipendio). Di contro il tutto ha un’uniforme patina anche troppo “pulitina” e perfetta che lascia un po’ insoddisfatti rispetto a quanto il poliedrico ventaglio stilistico a disposizione avrebbe potuto far pensare. Si ha a tratti più l’impressione di avere tra le orecchie un eccellente mix di basi (pre)settate che un lavoro suonato per davvero.
Parliamo comunque di un buon (e godibilissimo) album: e chi scrive continua a preferire questa fettazza della nostra scena hh rispetto alla monotona – pur con le eccezioni che sappiamo – mo(n)danità pischellosa che a sua volta – vedi Vilipendio – provvede a spernacchiare.